Nella seconda metà del XII secolo Ancona era da tempo una repubblica marinara che intratteneva rapporti commerciali con il Mediterraneo orientale, sotto la protezione di Bisanzio. La città dorica disponeva di un territorio che andava poco al di là del Monte Cònero, ma coniava una sua moneta chiamata agontano, regolava i propri traffici con gli Statuti del mare e disponeva di fondaci in diverse città del Levante. Con i suoi commerci essa disturbava gli interessi di Venezia, con la quale era stata più volte in conflitto. Nel XII secolo, l’altro avversario temibile per Ancona era l’Impero germanico, che voleva annullarne l’autonomia faticosamente conquistata. Nel 1137 essa era riuscita a respingere l’assedio di Lotario II, mentre trent’anni più tardi aveva affrontato vittoriosamente un primo assedio da parte di Federico Barbarossa.
Stamira nell’assedio del 1173
Ancona fu attaccata per la seconda volta dal Barbarossa durante la sua quarta discesa in Italia. L’occasione gli era stata data dall’alleanza stretta dalla città dorica con l’imperatore d’Oriente Manuele I Comneno, patto che doveva apparire intollerabile al Barbarossa, la cui politica era stata da sempre, oltretutto, quella di ridurre sotto il proprio controllo i comuni italiani. Fallito il primo assedio nel 1167, questa volta l’imperatore germanico si servì di un’alleata, Venezia, alla quale affidò il compito di occupare il porto di Ancona con le sue galee. Nello stesso tempo il suo luogotenente, il cancelliere Cristiano di Buch, arcivescovo di Magonza, avrebbe assediato la città da terra. L’assedio del cancelliere imperiale, il quale aveva fama di uomo crudele e spietato, ebbe inizio nell’aprile 1173 ma non portò alla capitolazione della città a causa della strenua resistenza degli anconetani. La cronaca di Boncompagno da Signa intitolata De obsidione Anconae descrive efficacemente la situazione della città dopo quattro mesi di assedio, con la popolazione ridotta allo stremo dalla malnutrizione e dalla fame, ma anche con numerosi episodi di abnegazione da parte dei cittadini e delle donne in particolare.
Il gesto per il quale è ricordata Stamira avvenne durante uno scontro tra assediati e assedianti allorché, scrive Boncompagno, “un tale [di parte anconetana] lanciò davanti agli steccati di legno una botticella ripiena di resina e di pece, ma nessuno ardiva incendiarla perché quel luogo era in mezzo ai combattenti. Senonché ecco spiccarsi una donna vedova, a nome Stamira, la quale, afferrata con ambo le mani una scure, spezzò lesta la botte, accese una fiaccola e, correndo, tanto la tenne, al cospetto di tutti, tra i legni dell’edificio finché il fuoco non esercitò le sue forze. Così arsero macchine [belliche] e ripari…”. Gli assedianti germanici subirono così la perdita delle macchine da guerra e anche di numerosi cavalli presto catturati dagli anconetani.
L’eroico Giovanni da Chio
Certamente maggiore fu l’effetto sul piano militare conseguito dall’impresa di Giovanni da Chio, volta a danneggiare le navi veneziane ancorate in porto: “Prete Giovanni, canonico anconetano, sedendo un giorno poco lungi dal mare, volgeva in mente se potesse danneggiare il nemico e fare onore alla città. Era uomo nerboruto, forte e audace. Avvicinatosi al porto si spogliò (…), si gettò di repente in mare e nuotando con una scure nella mano, pervenne al canapo che, per l’un capo, assicurava da prora la nave di Romano Marano [comandante veneziano] e, per l’altro, l’ancora gettata nel porto e incominciò a recidere. (…) Coloro i quali erano sulla nave, accortisi di quanto il prete faceva, incominciarono a saettarlo con archi e balestre, ma egli subito sommergevasi sottoacqua, ricomparendo poi come un delfino e con successivi colpi stroncò la gomena principale, onde le corde minori si ruppero da sé. (…) Il prete ritornò nuotando alla riva, molto schernendo da lì i Veneziani”. La sua temeraria impresa, pur non provocando l’immediato affondamento della nave, ebbe un enorme effetto emulativo sui suoi concittadini, i quali “vedendo l’audacia del prete, per l’occasione propizia del tempestoso accavallarsi delle onde, provocarono i Veneziani a battaglia e (…) dalla parte più sicura del porto, respinsero fuori sette galee nemiche, le quali poi, dalla acerbità dei venti sospinte nella rupe, si spezzarono” (il cronista è sempre Boncompagno da Signa), dunque le perdite per i Veneziani furono gravissime. L’assedio per terra e per mare terminò dopo sei mesi di duri scontri allorché giunsero in soccorso di Ancona le truppe di Guglielmo Marcheselli, signore di Ferrara, e di Aldruda Frangipane, contessa di Bertinoro, chiamati dagli Anconetani e successivamente ricompensati dall’imperatore d’Oriente Manuele Comneno. Quest’ultimo, riconoscente ad Ancona per la resistenza al Barbarossa, le concesse il diritto di aprire fondaci in tutti i porti dell’Impero d’Oriente. Secondo la tradizione egli donò ad Ancona in questa occasione un drappo rosso con una croce d’oro al centro che è ancor oggi il vessillo della città.
Il mito di Stamira
Benché gli episodi riferiti non fossero stati certamente determinanti per le sorti dell’assedio, essi avrebbero assunto in epoca risorgimentale un valore paradigmatico del carattere fiero degli anconetani creando un vero e proprio mito, grazie all’opera di alcuni storici, di uno scrittore e di un pittore. Il primo contributo in tal senso fu dell’abate Ludovico Antonio Muratori il quale ripubblicò nel 1725 la cronaca medievale di Boncompagno da Signa, riportando alla luce quella storia da tempo dimenticata. Nel secolo successivo un decisivo apporto alla definizione del mito venne da un patriota modenese, Giuseppe Andrea Cannonieri (1795-1864), il quale pubblicò a Firenze nel 1848 una storia romanzata dal titolo L'assedio di Ancona dell'anno 1174 per Cristiano, arcivescovo di Magonza. Pochi anni più tardi (1857) il pittore anconetano Francesco Podesti dipinse un vasto quadro di soggetto storico, intitolato Il giuramento degli Anconetani, oggi conservato nella Sala del Consiglio comunale di Ancona, in cui compare Stamira mentre giura posando la mano sulla spada tra persone che ascoltano un vecchio senatore cieco il quale incita i suoi concittadini a resistere all’assedio. Un altro quadro di Podesti, che ritrae l’eroico gesto della vedova con una fiaccola in mano, è conservato presso il municipio di Bertinoro, la città della contessa Frangipane. Le due opere dipinte dal Podesti mentre l’Italia era impegnata a conseguire la propria indipendenza dagli austriaci avevano un chiaro significato patriottico. Anche nel XX secolo non mancarono scrittori locali che contribuirono alla popolarità di Stamira. L’eroina anconetana è oggi ricordata dal nome di uno dei tre corsi principali della città dorica, da piazza Stamira e dalla società polisportiva "S.E.F. Stamura”.