Le Marche furono annesse al Regno di Sardegna, destinato in pochi mesi a mutare il proprio nome in Regno d’Italia, nel settembre 1860, in seguito a una campagna militare partita dalla Romagna, già sotto controllo sabaudo, l’11 di quel mese. Se il passaggio delle truppe piemontesi lungo l’Adriatico non incontrò ostacoli di rilievo – appena un giorno di assedio della Rocca di Pesaro – la presa di Ancona fu invece il risultato di un’operazione militare complessa che comportò la perdita di molte vite umane.
Sulla città dorica conversero infatti sia le truppe piemontesi dei generali Enrico Cialdini e Manfredo Fanti (quest’ultimo comandante della spedizione), provenienti dal Nord, che quelle del generale Christophe de Lamoricière, comandante dell’esercito pontificio, provenienti dall’Umbria. Lamoricière era convinto che, una volta asserragliatosi ad Ancona, città protetta dal mare su tre lati e difesa da numerose fortezze verso l’interno, avrebbe potuto resistere a lungo in attesa di rinforzi da potenze straniere. In effetti egli giunse in ritardo con il grosso delle sue truppe, peraltro divise in due brigate, nella valle del Musone rispetto ai piemontesi, subendo così la sconfitta di Castelfidardo (18 settembre). Parecchi soldati pontifici riuscirono a raggiungere ugualmente Ancona insieme allo stesso Lamoricière, il quale prese immediatamente il comando delle operazioni di difesa della città.
L’attacco dal mare
Il governo piemontese era consapevole che per prendere Ancona bisognava predisporre un attacco dal mare e già nei primi giorni di settembre aveva incaricato l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano di sostenere via mare l’azione militare dei generali Cialdini e Fanti. Persano aveva ai suoi ordini una forza di tutto rispetto: quattro fregate (chiamate Maria Adelaide, Carlo Alberto, Vittorio Emanuele e Costituzione), la corvetta Governolo e l’“avviso” (nave rapida usata per tenere i collegamenti) Malfatano. Non vi erano invece navi pontificie a presidio del porto anconetano, il quale era difeso essenzialmente dalla possente costruzione del Lazzaretto (oggi Mole Vanvitelliana) e dall’alta Lanterna, dove si trovavano 150 soldati austriaci, al comando del tenente Westminsthal, incaricati di rispondere con nove cannoni al tiro delle navi piemontesi. Alla base dell’edificio vi era una casamatta che custodiva una grande quantità di esplosivo. Vi erano poi due forti, sul colle dei Cappuccini e sul Cardeto, che per la loro posizione elevata costituivano una vera minaccia nei confronti delle navi che si accostavano al porto. È per tale motivo che il 18 settembre Persano li bersagliò con un primo bombardamento seguìto, a quattro giorni di distanza (22 settembre) da un nuovo e più intenso cannoneggiamento, con il quale non ottenne però la capitolazione della città come si aspettava. La notte del 24 l’ammiraglio sabaudo tentò anche di attaccare con due imbarcazioni il Lazzaretto, uno dei capisaldi della difesa del porto, ma fu respinto. I difensori pontifici, benché sprovvisti di una forza navale, resistevano strenuamente, mentre il generale Fanti si avvicinava alla città dall’interno conquistando il 24 Monte Pelago e il 26 Monte Pulito.
L’esplosione della Lanterna
L’ammiraglio Persano incominciava a temere l’esaurimento delle scorte di carbone delle sue navi e persino l’eventualità di una tempesta che ne provocasse l’affondamento, perciò decise un rischioso attacco diretto al porto. Alle 13 del 28 settembre la Vittorio Emanuele, la Governolo e la Costituzione, contrastate da un forte vento di scirocco, si ancorarono e iniziarono a cannoneggiare il porto, pur trovandosi a loro volta sotto il tiro dei cannoni della Lanterna. L’azione decisiva fu compiuta dalla Vittorio Emanuele, che si avvicinò il più possibile ad essa sparando ininterrottamente contro l’obiettivo. Una granata raggiunse il deposito delle polveri provocando prima l’esplosione della casamatta e poi di tutta la Lanterna. Lo spaventoso boato fu udito in tutta la città, mentre molti anconetani assistettero sgomenti al gigantesco incendio che avvolgeva la Lanterna spezzata dall’esplosione. Dei 150 difensori dell’edificio sopravvissero solo in 25.
Poco dopo un ufficiale pontificio si recò a bordo della Carlo Alberto, dove si trovava l’ammiraglio Persano, per chiedere l’armistizio a nome del generale Lamoricière. Persano lo fece accompagnare a conferire con il generale Fanti, suo superiore, mentre organizzava lo sbarco dei suoi uomini. Alle 19,30 lo stesso Lamoricière si consegnò a Persano riconoscendo il valore dei marinai e degli ufficiali della Marina sabauda.
La resa
Il giorno successivo, 29 settembre 1860, a Villa Favorita, alla Baraccola, sede del comando sabaudo, fu firmata ufficialmente la pace tra i generali Fanti e Lamoricière e il passaggio dell’Umbria e delle Marche dallo Stato pontificio al Regno di Sardegna. (Villa Favorita è dal 1989 sede del prestigioso Istituto Adriano Olivetti – Istao).
La mattina successiva la guarnigione pontificia, consistente di tre generali, 368 ufficiali e 6.000 soldati, con tutti gli onori di guerra, si consegnava ai piemontesi. La presa di Ancona, fatto militare importante quanto la battaglia di Castelfidardo per l’unione delle Marche al resto d’Italia, era costata ai pontifici 400 tra morti e feriti e ai piemontesi la perdita di 180 soldati e marinai.
Destini diversi attendevano i tre comandanti, per curiosa coincidenza nati tutti nel 1806, protagonisti dei drammatici eventi del settembre 1860. Lamoricière e Fanti morirono entrambi cinqantanovenni nel 1865, il primo nel castello di Prouzel, in Francia, il secondo a Firenze. L’ammiraglio Persano fu per pochi mesi nel 1862 ministro della Marina e dal 1865 senatore. Nominato comandante della Regia flotta durante la Terza guerra di indipendenza (1866), fu ritenuto responsabile della sconfitta italiana nella battaglia navale presso l’isola di Lissa ad opera degli austriaci, e fu privato del grado di ammiraglio, delle decorazioni e persino della pensione. Morì a Torino, avendo goduto di un sussidio concessogli dal re a titolo personale, nel 1883.