Giacomo Leopardi (1798-1837), poeta tra i maggiori della letteratura italiana e pensatore di non minore grandezza, nacque a Recanati il 28 giugno 1798 da una famiglia, i conti Leopardi di San Leopardo la cui nobiltà risaliva almeno al XIII secolo.
Monaldo e Adelaide
Tra i familiari di Giacomo, chi ha maggiormente influito sulla sua formazione è stato il padre, conte Monaldo Leopardi (1776-1847), uomo di vasta erudizione, soprattutto storica (si ricordano i suoi Annali di Recanati), polemista della Reazione, nonché integerrimo amministratore della sua città. Monaldo era figlio primogenito del conte Giacomo, di cui rimase orfano all’età di quattro anni, e della marchesa Virginia Mosca. Da bambino Giacomo Leopardi era solito compiere allegre scorribande insieme ai fratelli nell’appartamento all’ultimo piano del palazzo avito in cui viveva ancora la nonna Virginia. Monaldo fu educato in casa dall’ex gesuita messicano Giuseppe Torres, di cui avrebbe criticato nella sua Autobiografia (rimasta inedita) i metodi didattici. Nonostante ciò lo avrebbe assegnato come precettore anche al figlio Giacomo. Assunta la disponibilità del patrimonio di famiglia a soli diciotto anni (per deroga papale dalle leggi vigenti), sposò a ventuno, nel 1797, contro la volontà della madre, la giovane Adelaide dei marchesi Antici (1778-1857), appartenente anch’ella alla nobiltà recanatese. La coppia ebbe numerosi figli: il primogenito Giacomo nel 1798 e poi Carlo (1799-1878), Paolina (1800-1869), Luigi (1804-1828) e Pierfrancesco (1813-1851).
Ben presto tuttavia emersero gravi problemi nell’amministrazione del patrimonio familiare sia per debiti che Monaldo aveva ereditato da un prozio e che non era mai riuscito a saldare, sia per spese esorbitanti da lui stesso sostenute. Il casato Leopardi si trovò così sull’orlo del fallimento, da cui fu salvato da funzionari dello Stato pontificio a patto che l’amministrazione del patrimonio passasse alla consorte di Monaldo. Adelaide Antici si rivelò una sagace, ancorché sin troppo oculata, amministratrice dei beni di casa Leopardi. L’immagine che le biografie del poeta ne hanno restituito è quella di una donna poco affettuosa che seguiva i figli con lo sguardo ma non con gesti e parole di madre, interamente compresa nella sua funzione di tutrice del patrimonio. Questa situazione domestica, se da una parte poteva apparire umiliante per Monaldo, dall’altra gli consentì di dedicarsi interamente – liberato da impegni di carattere pratico – ai suoi amati studi e anche alle funzioni di pubblico amministratore. Fu proprio per aver ricoperto cariche municipali nel periodo antecedente (1798) e seguente (1800-01) l’occupazione napoleonica che si ritrovò in seri guai. Noto come un fiero sostenitore dell’ancien régime, gli fu comminata persino una condanna a morte, subito revocata, ma sufficiente a rafforzarlo per sempre nella sua radicale avversione per le idee rivoluzionarie. Dopo una breve restaurazione del governo pontificio seguirono gli anni del Regno d’Italia napoleonico (1808-15) durante i quali egli si rifiutò di assumere qualunque incarico amministrativo.
Con la Restaurazione Monaldo tornò invece sul proscenio della vita pubblica locale: fu infatti gonfaloniere (vale a dire sindaco) di Recanati dal 1816 al ’19 e dal 1823 al ’26. In tale funzione si distinse per operosità, probità e iniziative di carattere sociale: ad esempio in un periodo di carestia fornì medicinali gratuitamente alla popolazione bisognosa e, per garantire un reddito minimo a chi si trovava in difficoltà, impegnò diversi uomini nella costruzione di strade e molte donne nella tessitura della canapa. Le idee reazionarie professate sul piano politico non gli impedivano di accettare le innovazioni sanitarie, come il vaccino contro il vaiolo, che anzi introdusse per primo nello Stato Pontificio vaccinando personalmente i suoi figli e rendendolo obbligatorio per tutta la popolazione di Recanati. Un altro merito di Monaldo fu quello di aver aperto la sua biblioteca alla fruizione dei concittadini, i quali però non ne approfittarono o per qualche avversione nei suoi confronti o per semplice indifferenza. La diffusione delle idee liberali in Italia e in Europa insieme ai primi moti carbonari preoccupava non poco Monaldo, il quale si impegnò a combatterle con numerosi scritti e dirigendo due riviste a larga diffusione (La Voce della Verità e La Voce della Ragione). Il libello intitolato Dialoghetti, uscito nel 1832 sotto pseudonimo, con il quale attaccava i princìpi dell’egualitarismo, della libertà, della limitazione dei poteri assoluti del monarca, riscosse un enorme successo e fu letto anche fuori d’Italia. Il figlio Giacomo, che non ne condivideva affatto il contenuto, dovette smentire di esserne l’autore.
Padre e figlio
I complicati rapporti tra Monaldo e Giacomo sono stati molto dibattuti. Si può comunque affermare che Monaldo non solo incoraggiò costantemente il figlio negli studi mettendogli a disposizione una biblioteca di 20.000 volumi (che comprendeva anche testi messi all’Indice), ma ne fu il primo estimatore. Egli sperò sempre di fare di Giacomo un suo alleato nella battaglia ideale contro i principi della Rivoluzione e, temendo di perderlo, ostacolò la sua partenza da Recanati. Dopo essersi accorto che Pietro Giordani lo stava influenzando negativamente (secondo il suo punto di vista), tentò sempre di riportarlo nell’alveo della fede e della tradizione, senza peraltro riuscirvi. Nonostante ciò – anche dopo la partenza di Giacomo da Recanati nel 1825 – continuò a intrattenere un dialogo epistolare con lui fondato su stima e affetto paterno. Non fu, come qualcuno ha sostenuto, un cattivo padre, ma le sue idee non gli consentivano di comprendere le sofferte scelte del figlio. Morì nel 1847, dieci anni dopo la scomparsa di Giacomo.
a cura di Pier Luigi Cavalieri