Nei primi decenni dell’Ottocento la grande passione sportiva dei marchigiani, in particolare dei giovani nobili, era il gioco del pallone con il bracciale. Si trattava di uno sport antico, conosciuto nella Marca e in Italia sin dal XIV secolo, ma non mancavano antecedenti in epoca romana. Nell’Ottocento esso si praticava tra due squadre di tre giocatori ciascuna, i quali dovevano colpire con il loro avambraccio, fasciato da un grosso manicotto di legno, una palla di cuoio, facendola rimbalzare su un muro laterale rispetto al terreno di gioco e lasciandola cadere sul campo avverso.
Nei piccoli centri delle Marche i luoghi che meglio si prestavano alla pratica di questo sport erano degli slarghi situati in prossimità delle mura cittadine, che non avevano ormai più una funzione difensiva. Così, già prima del 1820 sia a Recanati che a Treia furono creati dei veri e propri campi per il gioco del pallone col bracciale, mentre a Macerata fu realizzata nel 1823 la grande arena Sferisterio (dalla capienza di 2800 posti) con notevole dispendio di mezzi da parte di un consorzio di sodali. Anche il giovane Giacomo Leopardi si lasciò affascinare da questo gioco dedicando uno dei suoi componimenti poetici A un vincitore nel pallone. Tale è il titolo della “canzone” leopardiana in cinque strofe dedicata a Carlo Didimi, nato a Treia nel 1798 e già allora – nel 1821 – grande campione.
Didimi aveva la stessa età di Leopardi ed è evidente già nella prima strofa l’ammirazione che il poeta recanatese nutriva per il “garzon bennato” di Treia, nella cui “sudata virtude” vedeva un incitamento per la patria a rinnovarsi. Di lui ci resta un solo ritratto, opera di un mediocre pittore, che lo mostra con un orecchino, in costume di gioco.
Il campione più grande
Carlo Didimi era nato a Treia dal conte Francesco e da Pasqualina Ercolani. Già praticante di atletica sin da piccolo, nel gioco del pallone col bracciale egli svolgeva il ruolo di battitore. Nel 1823 stabilì il record del lancio della palla nello sferisterio di Forlì, inaugurato in quell’anno. Nel 1828 Didimi sposò Casilde Broglio, dalla quale avrebbe avuto otto figli. La sua popolarità andò crescendo sempre più, tanto da essere considerato il più grande giocatore italiano di ogni tempo in questa specialità. Essendo entrato nel mito, circolavano su di lui diversi aneddoti. In uno di essi, mentre giocava nello Sferisterio di Macerata, Didimi sarebbe riuscito, con una delle sue potenti battute, a lanciare la palla da un’estremità dell’arena facendola ricadere all’esterno, nell’attuale piazza Nazario Sauro. In un altro, mentre dava prova in incognito delle sue doti di giocatore tra la folla che assisteva a una partita a Forlì, fu apostrofato da uno spettatore con queste parole “O sei il diavolo o sei Carlo Didimi!”. Il fatterello trova eco in un passo del famoso romanzo autobiografico di Dolores Prato Giù la piazza non c’è nessuno ambientato a Treia:
Per il gioco del pallone ci voleva un muro. […] A Treja c’era il muro, ma non fabbricato per il gioco, era il muro che sosteneva la più bella piazza pensile del mondo […]. Da quel gioco del pallone era uscito un giocatore che se non era lui, era il diavolo; per la bravura di quel diavolo trejese, il recanatese Leopardi scrisse l’ode A un vincitore nel pallone. Quando giravo estasiata avanti ai banchi dei chincaglieri sotto le Logge […] era il nome ad entrarmi di prepotenza negli occhi tanto era scritto grosso in una lapide: Carlo Didimi.
In questi anni del primo Ottocento il gioco del pallone stava assumendo caratteristiche che lo avvicinavano agli sport praticati nel Novecento: ad esempio nella popolarità “nazionale” dei suoi campioni, ingaggiati in incontri che si tenevano in parecchie città della penisola, e anche negli alti compensi che essi percepivano. Sappiamo che lo stesso Didimi chiese, per giocare allo Sferisterio di Macerata nel 1830, l’enorme cifra di 600 scudi romani (più o meno 150 mila euro di oggi). Tali remunerazioni consentivano ai fuoriclasse come Didimi di vivere agiatamente.
Carlo Didimi patriota
Carlo Didimi non fu solo un osannato giocatore di pallone, fu anche un ardente patriota, abbracciando, come molti giovani della sua generazione, Leopardi compreso, la causa nazionale. I viaggi che compiva per recarsi a giocare nelle varie città gli consentirono di prendere contatti con ambienti carbonari e mazziniani. Nel 1831 si compromise aderendo ai moti rivoluzionari della Romagna e recandosi volontario con il fratello e altri treiesi a combattere in Umbria contro l’esercito pontificio. Un rapporto di polizia lo definiva “fanatico fautore e partigiano dei liberali”. Negli anni successivi fu guardato dalla polizia pontificia con estremo sospetto, tanto da essere denunciato nel 1839 a Tolentino per attività rivoluzionarie. All’avvento di Pio IX (1846) l’amnistia concessa dal nuovo pontefice ai liberali gli consentì di svolgere anche ruoli di amministrazione nella sua città fino al ’49. Didimi poté assistere al compimento dell’Unità nazionale vivendo fino al 1877, quando si spense a Treia. Lo sport che gli aveva dato tanta popolarità sopravvisse nella sua città fino agli anni Cinquanta del Novecento, per riprendere poi nel 1978 nella forma della rievocazione storica chiamata Sfida del Bracciale, che si tiene la prima domenica di agosto di ogni anno.