Montegranaro è un comune collinare del Fermano noto in Italia e all’estero per le sue numerose aziende calzaturiere. Accanto alle tradizioni religiose rappresentate dal santuario dedicato al frate cappuccino S. Serafino, Montegranaro custodisce la memoria di un grande uomo politico, nonché “padre Costituente”, Giovanni Conti, nato qui nel 1882.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento la manifattura delle scarpe era già presente a Montegranaro se David Conti, padre di Giovanni, era impegnato come imprenditore in questa attività. La madre Livia Germozzi era invece una maestra elementare. David Conti trasmise al figlio la passione per gli ideali mazziniani così che appena sedicenne, Giovanni aderì al Partito repubblicano, fondato nel suo paese tre anni prima, facendo anche opera di proselitismo tra i suoi compagni del liceo-ginnasio di Fermo.
Il giovane Conti terminò i suoi studi liceali al Visconti di Roma, città dove avrebbe conseguito nel 1908 la laurea in giurisprudenza. Tuttavia il legame con il paese di origine si mantenne fortissimo negli anni giovanili, tanto che egli, nei periodi per lo più estivi che vi trascorreva, diede vita a varie iniziative di carattere politico e culturale: fondò un biblioteca popolare, aprì in primo circolo repubblicano, si fece promotore dell’apposizione di una lapide dedicata a Cavallotti e Imbriani sulla facciata del palazzo comunale, diresse una filodrammatica giovanile e raccolse i fondi per l’erezione di un monumento a Mazzini.
Nel 1905 pubblicò la Strenna di Montegranaro, volumetto ricco di notizie sulla storia e sulla realtà presente del suo paese. Appena laureato Conti vi fondò un piccolo giornale intitolato L’Iniziativa, che poi, dal 1912 al 1920, sarebbe stato stampato a Roma, primo organo del Partito repubblicano. Dopo il periodo universitario, la pratica professionale di avvocato lo tenne sempre più impegnato nella capitale. A Roma inoltre egli andava assumendo un ruolo politico di rilievo all’interno del Partito repubblicano, nella cui Direzione entrò nel 1912. I repubblicani costituivano allora una piccola minoranza, ancorché assai combattiva, guardata con sospetto dalle autorità, cosicché Giovanni Conti riportò già nel 1913 una condanna a quindici giorni di carcere con la condizionale per aver pronunciato un discorso contro la monarchia. Benché fosse accusato di sovversivismo, in realtà il repubblicanesimo di Conti si ispirava al modello politico statunitense e, per quello che riguarda il decentramento amministrativo guardava alla Svizzera, nel solco del pensiero di Carlo Cattaneo. Estraneo a ogni forma di collettivismo, Conti sosteneva come Mazzini l’istruzione popolare, la piccola proprietà, la cooperazione, e l'iniziativa privata in campo economico.
Tanti impegni politici non impedirono a Conti di conoscere nel 1915 la sua futura moglie, Rosa Alessandrini, di Falerone, durante uno dei suoi periodici ritorni in paese. Tre figli sarebbero nati dal loro matrimonio, celebrato qualche anno dopo.
Dalla Grande guerra al fascismo
All’approssimarsi della Prima guerra mondiale Conti assunse con il suo partito una posizione interventista. Con una coerenza che sarà costante nella sua vita, si arruolò volontario chiedendo di essere mandato a combattere al fronte. Fu inviato in Trentino presso il Pasubio, dove si guadagnò una Croce di guerra. Dopo il conflitto tornò all’attività politica. Subì un arresto nel 1919 per propaganda sovversiva, cioè antimonarchica, tra i reduci di guerra. Tuttavia nel 1920 il congresso del Partito gli affidò la direzione del giornale “La Voce Repubblicana” da lui stesso fondato. Nel maggio 1921 Conti fu eletto deputato così, che si trovò a vivere in Parlamento i travagliati anni dell’avvento del fascismo, regime di cui sarebbe stato fiero e irriducibile oppositore. Conti riuscì nonostante tutto ad essere confermato deputato anche nelle elezioni del 1924. Avendo partecipato alla secessione dell’Aventino per protesta contro l’instaurazione della vera e propria dittatura nel 1925, l’anno successivo egli fu destituito da deputato, insieme a 120 altri oppositori del regime. La vita di Giovanni Conti sotto il regime fascista fu quella di un sorvegliato speciale, costantemente seguito da un poliziotto, e di fatto impossibilitato ad esercitare la sua professione di avvocato in quanto ben pochi erano i potenziali clienti disposti a rischiare le ritorsioni del regime.
Vicepresidente dell’Assemblea Costituente
Dopo la liberazione di Roma, nel giugno 1944, Giovanni Conti riprese la sua attività politica e pubblicistica, tornando a dirigere “La Voce Repubblicana” e più tardi la rivista “La Costituente”, da lui stesso fondata. Alla vigilia del referendum istituzionale del giugno 1946 egli si batté con tutte le sue forze perché prevalesse la repubblica. In quella stessa occasione si votò anche per l’elezione dei deputati chiamati a far parte dell’Assemblea Costituente e Conti fu tra gli eletti. Nella prima riunione dell’Assemblea, il 25 giugno, egli fu designato come uno dei quattro vicepresidenti, assumendovi perciò un ruolo di primo piano anche nella redazione materiale della Carta. Tra l’altro presiedette la sezione speciale per l’elaborazione delle norme concernenti il potere giudiziario. A lui si deve in particolare l’articolo 104 che sancisce l’assoluta indipendenza della magistratura dal potere politico, Non sempre i suoi orientamenti furono accettati, ad esempio quando propose di ridurre il numero dei parlamentari, o quando consigliò, in nome della stabilità, che i futuri governi durassero un’intera legislatura. In questa come in altre sue idee Conti sembra essere stato un ispirato precursore delle scelte di varie forze politiche in questi ultimi anni. Nel mezzo di tanti e gravosi impegni istituzionali, Conti trovava il tempo anche di tornare a Montegranaro e di farsi promotore della necessità di edificare un nuovo teatro (cui sarebbe stato dato il nome “La Perla”). In realtà anche nei suoi ultimi anni “Nanni” Conti (questo il nomignolo con cui lo chiamavano i suoi compaesani) fu sempre il punto di riferimento dei montegranaresi nei confronti del potere politico a Roma. Dopo il 1950 egli rallentò la propria attività politica uscendo dal Partito repubblicano per dissidi e limitandosi a quella pubblicistica. Morì nel 1957 tra il cordoglio generale. Amici e nemici gli riconobbero, accanto alla capacità di visione politica, alla coerenza e alla dirittura morale, il grande impegno da lui profuso nel dare solidi fondamenti alla Repubblica italiana.