Jesi 1710 - Napoli 1736
Una vita brevissima, una meteora nel panorama musicale italiano della prima metà del Settecento. Eppure Giovanni Battista Pergolesi rappresentò il primo caso musicale europeo: la leggenda ed il mito si sostituirono alla storia, talvolta non rendendo giusto merito alla grande vena creativa del giovane marchigiano.
La sua vicenda umana, del resto, molto si prestò all’adagio oleografico: nato da famiglia umile ed assillata dai debiti, minato nella salute, lontano da ogni affetto, morto in solitudine in un convento a soli 26 anni. Una biografia che invita al mito, e per decenni l’agiografia non ha fatto giustizia di un musicista dalla grande inventiva, che con “La serva padrona” inaugurò un genere musicale nuovo, l’opera buffa che avrebbe avuto più avanti massima espressione in Mozart e Rossini.
Nato a Jesi da famiglia minata dalla tubercolosi (i fratelli tutti morti in tenerissima età, morti giovani anche i genitori) e colpito da poliomelite che gli offese una gamba, Giovanni Battista sin da bambino fu avviato in ambiente ecclesiastico allo studio della musica, divenendo precoce e valente violinista.
Questo gli permise di frequentare come musico i salotti della nobiltà jesina, e di ottenere l’aiuto di alcune famiglie abbienti per andare a studiare, intorno al 1723, nel Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo a Napoli.
Per la capitale del regono delle Due Sicilie erano anni di grandi mutamenti e di grande fervore culturale. Napoli era l’incrocio delle culture e, per la musica, il palcoscenico di ogni nuova proposta. Pergolesi respirò pienamente quest’aria culturale, assimilando soprattutto gli stimoli al nuovo, tanto che nella sua prima composizione eseguita in pubblico nel 1731 a Sant’Agnello maggiore “Li prodigi della Divina Grazia nella conversione e morte di S.Guglielmo duca d’Aquitania” insieme allo stile barocco ancora tipico del dramma sacro, inserì una sconosciuta ma irresistibile vena comica, che ritroviamo successivamente nel suo primo grande successo, “Lo frate ‘nnamorato” in scena al Teatro dei Fiorentini di Napoli nel 1732.
Un successo pieno, sottolineato dalle diverse riprese del titolo e dai grandi riconoscimenti dei quali il giovane Pergolesi divenne oggetto, non ultima la nomina a organista della Cappella Reale e, due anni più tardi, a maestro sostituito con diritto di successione della Cappella musicale.
Prolifico la sua attività: oratori, operine, cantate, musica sacra e strumentale. Nel 1733 musicò “Il prigioniero superbo”, opera seria in scena nell’agosto. Ma la vera fama gli pervenne con “La serva padrona”, opera buffa destinata non solo a eternare la musica del Pergolesi, ma a divenire filone musicale sullo scenario non solo napoletano.
Protetto da nobili famiglie filoaustriache, in particolar modo i Caracciolo e i Maddaloni, al rovesciamento del governo napoletano, Pergolesi le seguì a Roma dove rappresentò (maggio 1734) la “Messa in fa maggiore “ in San Lorenzo in Lucina, operazione che gli precluse le simpatie del nuovo governo dei Borboni.
Di nuovo a Napoli, nell’ottobre 1734 presentò nel Teatro San Bartolomeo “Adriano in Siria” (libretto di Metastasio). Nel gennaio successivo andò in scena a Roma “Olimpiade”, ancora su libretto di Metastasio.
Minata dalla tubercolosi, la salute del Pergolesi andò peggiorando, tanto da consigliare il soggiorno a Pozzuoli per godere del clima più mite. Ospite del Convento dei Cappuccini, si dedicò particolarmente alla musica sacra, ed ecco due grandi compisizoni, il “Salve Regina” e lo “Stabat Mater”, su commissione dell’Arciconfraternita della Vergine dei Dolori per sostituire l’opera di Alessandro Scarlatti.
Lo “Stabat”, destinato con “La serva padrona” ad eternare la sua fama, fu completata da Pergolesi poco prima della morte, avvenuta il 17 marzo 1736. Fu sepolto nella fossa comune della cattedrale di Pozzuoli. Le sue cose furono vendute per pagare i funerali.
Aveva soltanto 26 anni. La morte prematura, la prolifica produzione, il fascino di quella musica nuova, consegnarono il suo nome, fin’allora ristretto fra Napoli e Roma, alla fama europea.
Giovanni Martinelli